Trojan

Nell’ambiente degli hacker era indubbiamente uno dei migliori. Tutti lo conoscevano con il nickname “BoBBy”, un soprannome apparentemente buffo e innocente. Ma in realtà quello che faceva – ultimamente sempre più spesso – era tutt’altro che innocente…
Nella società del ventiduesimo secolo non c’era un solo aspetto della vita che non passasse attraverso i computer, e lui riusciva ad inserirsi perfettamente in questo sistema. Era in grado di vedere ogni cosa senza essere visto, poteva a copiare o manipolare dati senza lasciare tracce. Aveva imparato tutto questo con anni di esperienza, passati collegandosi alla rete per ore ed ore ogni notte con la sua interfaccia cerebrale, con il suo computer adeguatamente modificato e con il suo software capace di aggirare i controlli e le protezioni sempre nuove che venivano implementate nel sistema.

Di hacker ce n’erano tanti, ma BoBBy era uno dei pochissimi al mondo che riuscivano veramente ad avere il controllo della situazione senza farsi scoprire, e per questo il suo lavoro valeva oro. Quando se ne rese conto, cominciò ad offrire i suoi servizi ad alcune grandi società multinazionali, sempre rimanendo nell’anonimato e facendosi pagare adeguatamente. Negli ultimi mesi si rese anche conto che stava cominciando ad esporsi un po’ troppo, e sapeva benissimo che questo era molto pericoloso, ma d’altra parte è risaputo che soldi facili e prudenza raramente vanno d’accordo.

Così anche quella sera si mise all’opera. Collegò il cavo di interfaccia al terminale che si era fatto impiantare tre anni prima dietro all’orecchio destro, si sedette in poltrona, accese il computer ed iniziò il suo viaggio nella rete. Davanti a lui c’era una tastiera, ma raramente aveva la necessità di usarla. Gli input arrivavano direttamente dal suo cervello: solo in questo modo riusciva ad essere abbastanza veloce nei suoi movimenti virtuali da eludere tutte le protezioni che lo separavano dal suo obiettivo, senza farsi notare.

L’operazione che stava portando a termine non era delle più complesse, anzi per lui era diventata ormai una cosa di routine. Si trattava di utilizzare un software di tipo trojan che aveva piazzato ben nascosto sul server di una rete bancaria giapponese. Tramite questo riusciva ad accedere ai database interni e a mettere le mani sui preziosi codici di accesso dei conti correnti dei clienti. Un lavoretto semplice e redditizio. Ma questa volta qualcosa non andò come previsto.
Probabilmente qualcuno dall’altra parte si era accorto del suo giochetto, ma anziché cancellare semplicemente il trojan, lo aveva sostituito con un altro software solo apparentemente identico. A BoBBy sembrò quindi tutto normale fino a quando riuscì a stabilire la connessione come di consueto, ma dopo pochi secondi sul suo display tridimensionale comparve una piccola finestra con un messaggio di errore. Era uno di quei messaggi già visti centinaia di volte, che indicavano il crash di un programma. Quelli che normalmente si risolvono con un’imprecazione e una piccola perdita di tempo per riavviarlo, o al limite con la perdita dei dati non ancora salvati.

Per lo meno, questo era quello che sembrava.

In realtà BoBBy si accorse quasi subito che in quel messaggio c’era qualcosa di sbagliato. Ebbe il tempo di rabbrividire e di rendersi conto che la situazione era molto più grave di quello che sembrava. Ebbe anche il tempo di sudare freddo mentre guardava l’icona del suo firewall che indicava che era stato disattivato e si ricordò in un istante che l’interfaccia cerebrale era un’arma a doppio taglio. Non ebbe però abbastanza tempo per scollegare quel maledetto cavo dalla sua testa, prima che una scarica di corrente elettrica ad alta tensione arrivasse in un lampo a friggergli il cervello.

Rimase così, immobile e in silenzio, accasciato sulla sua poltrona, illuminato dalla debole luce azzurra del display del computer, che continuava a mostrare quella beffarda finestra di errore:

“L’utente ha eseguito un’operazione non valida e verrà terminato”

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